La villa storica sui Giovi, nota come “Villa Cristina” o “Villa Arzilla”, l’anno scorso era diventata famosa per i motivi peggiori: a maggio 2017 la stampa aveva segnalato i diversi episodi di maltrattamenti a danno degli anziani residenti nella casa di riposo gestita da una cooperativa, episodi che avevano portato la ASL3 a chiudere la struttura.
Chiusa questa esperienza, il Comune di Mignanego ha deciso di impiegare questo bene per un nuovo progetto sociale aprendo un nuovo Centro SPRAR, il terzo nei Comuni dell’Alta Val Polcevera dopo quello di Serra Riccò e quello di Campomorone, in aggiunta ai Centri di Accoglienza Straordinaria già presenti sul territorio. Una decisione che permette di sfruttare al meglio gli spazi di questa sede, che oggi offre 17 posti letto (14 attualmente occupati). Nello specifico, questo SPRAR è gestito da COOPSSE e dalla Comunità di San Benedetto e ha assegnata una copertura di 600.000,00€ per un progetto di tre anni.
Il progetto SPRAR si occupa dell’accoglienza secondaria: gli ospiti in questo caso hanno già ricevuto esito positivo dalle commissioni territoriali che accordano l’asilo politico o le altre forme di protezione internazionale, e hanno quindi diritto a rimanere nel nostro Paese. Questo passaggio ulteriore permette di offrire ancora un percorso di sei mesi rinnovabile fino a un anno per imparare la lingua, ottenere un diploma, e soprattutto avere l’occasione di conoscere imprenditori e residenti di un territorio che potrebbe essere quello di destinazione.
«La posizione forse non è ottimale, perché obbliga ovviamente i ragazzi a terminare tutte le attività di studio o lavorative entro le 19 o prima per riuscire a prendere le ultime corriere che arrivano fin quassù, tuttavia un Comune piccolo è più adatto a questo tipo di accoglienza», ci ha raccontato Sandra Torre, della Cooperativa COOPSSE e responsabile del centro. «Lo SPRAR è un punto di riferimento importante, perché paradossalmente il conseguimento dei documenti non cambia granché nella vita di questi ragazzi: hanno le stesse difficoltà di prima a trovare lavoro e a integrarsi sul territorio. In questo periodo che passano al centro, hanno occasione di entrare in contatto con realtà professionali locali, lavorando con la borsa lavoro pagata dal progetto SPRAR, e per molti è un’occasione per instaurare una collaborazione duratura anche dopo il periodo “protetto”. L’altra caratteristica dello SPRAR è che, essendo una realtà piccola, permette un’alta personalizzazione dei percorsi per i singoli ragazzi».
Una personalizzazione fondamentale, fosse anche solo per lingua e origine: al momento vengono da Afghanistan, Pakistan, Libia, Senegal, Gambia, Mali, Ghana e altri paesi dell’Africa Subsahariana. Hanno età che vanno dai 18 a oltre 50 anni, diversi gradi di alfabetizzazione (dall’analfabeta nella propria lingua madre a chi ha un’alta scolarizzazione), parlano arabo, urdu, pashto, francese, inglese e tante lingue locali dell’Africa Occidentale, come il wolof. Alcuni hanno già appreso un livello accettabile di italiano, altri preferiscono affidarsi all’inglese, facendo fatica a imparare una nuova lingua. Tutti o quasi hanno bisogno di assistenza psicologica, e diversi hanno problematiche fisiche che richiedono esami specialistici. Generalizzare, dunque, è impossibile.
Tuttavia, il gruppo è diventato rapidamente molto solido, malgrado le tante differenze. Le storie che raccontano sono le più disparate: Shere Khan, giovane afghano, rifiuta di parlare della sua situazione prima di venire in Europa. «La mia vita è stata tanto brutta che non vale la pena raccontarla», ci ha detto. Ammette però di aver lasciato una famiglia molto numerosa che dipende economicamente da lui, dai soldi che riesce a risparmiare sulla borsa lavoro (250,00€ al mese) e che invia a casa ogni mese. Shere Khan ha ottenuto il permesso di soggiorno sussidiario perché non può tornare in Afghanistan: qualunque sia la storia che non vuole raccontare, il suo ritorno nel paese d’origine lo metterebbe in pericolo di vita.
Tutt’altro è il racconto che fa Shaban, l’ospite più anziano del Centro SPRAR, esule libico che è scappato un anno fa dal suo paese: «Ho dovuto mandare via la mia famiglia, avevo paura per loro», racconta in un inglese dal forte accento arabo. Non è difficile credergli, quando racconta il suo precedente lavoro: gli ufficiali dell’esercito di Gheddafi sono perseguitati fin da quando il regime è caduto. Sua moglie e i suoi quattro figli risiedono adesso in Germania, dopo essere passati per Malta. Lui è partito in un secondo momento, raggiungendo le coste italiane. Shaban forse è nella situazione più precaria: con la sua età è difficile trovare un lavoro, e fa fatica a imparare l’italiano.
«Desidero tornare nel mio paese, quando la situazione si sarà normalizzata. Tornerei anche adesso a combattere, se la guerra fosse chiara, se ci fosse una parte giusta, ma ora tutti combattono per i soldi, per i privilegi, il potere. Le milizie combattono nelle strade delle città libiche, che cambiano bandiera ogni mese, ma nessuno pensa alla popolazione. Mi chiedo come il governo italiano possa aver fatto accordi con una fazione, quando nessuna è stabile, nessuna è di fatto un governo riconosciuto dal paese. Ha solo finanziato la guerra civile». Shaban non nasconde la sua ammirazione per Gheddafi, creando per noi un momento di imbarazzo quando racconta di come il Rais spargesse ricchezza e benessere nel suo paese. Tuttavia, questa è la Libia che lui conosceva: fino al 2011, ha vissuto in pace, con un buon impiego, una casa, cavalli, e poteva garantire un futuro sereno e spensierato ai suoi figli. Ora ha perso tutto. Anche lui ha il permesso sussidiario: se tornasse ora in Libia, sarebbe sicuramente in pericolo di vita.
«Poi ci sono i ragazzi africani», racconta Sandra, «che sono quasi tutti scappati dalla miseria. Hanno ottenuto la protezione per motivi umanitari, ma sono qui per garantire un futuro migliore alla famiglia. Molti sono consapevoli di aver scelto una sorta di esilio volontario e che non rivedranno più i parenti che hanno lasciato in patria, inoltre vivono con l’angoscia di ripagare i debiti contratti per riuscire a effetturare il viaggio verso l’Europa prima che il trafficante di esseri umani si rivalga sui genitori o sui fratelli».
Un insieme di persone molto eterogenee tra loro, dunque, che stanno trovando un modo per vivere insieme e per imparare a essere autonomi nella propria gestione.
Si cerca nel frattempo di capire come cambierà nel concreto il progetto SPRAR con il Decreto Sicurezza in discussione in Parlamento. Il testo attuale del Decreto-Legge n. 113 del 04.10.2018 prevede infatti di togliere risorse agli SPRAR, limitando gli accessi a minori non accompagnati e a chi riceve la protezione internazionale, per finanziare piuttosto le commissioni che devono decidere su chi ha diritto a rimanere in Italia e chi invece no. La Lega punta sui Centri d’Accoglienza, andando in controtendenza ai dati che emergono dalle realtà sul territorio: piccoli centri dove si riescono a seguire gli ospiti singolarmente e a creare percorsi personalizzati sono più funzionali e permettono una maggiore integrazione che grandi centri da cento, centocinquanta persone.
In particolare, lo SPRAR passa per il controllo e la gestione dell’ente locale, come ci ha ricordato anche il Sindaco di Mignanego Maria Grazia Grondona. Tutte le spese sostenute dalle cooperative che si occupano del centro passano per il controllo e la verifica del Comune, prima di essere inoltrate per il rimborso. Ben diversa è la situazione di molti CAS, dove vige spesso un regime di massimo ribasso e dove i privati sono meno controllati, tanto che in diverse regioni italiane si sono già verificate e accertate infiltrazioni della criminalità organizzata in queste realtà, oltre a vere e proprie truffe a danno dello Stato e degli stessi migranti.
Intanto a Mignanego i ragazzi stanno familiarizzando con il territorio e i residenti, che venerdì scorso erano invitati al centro per conoscere meglio questa nuova realtà dei Giovi.
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